sabato 8 ottobre 2011

8 Ottobre.

Il pavimento era blu e di gomma, le pareti proseguivano nel blu e dopo un breve stacco beige terminavano in un classico bianco ospedaliero.
La luce era gialla, gialla nel verso senso del termine, e sebbene fosse primo pomeriggio avevo la sensazione che fuori fosse notta fonda, e che io e le altre dieci persone sedute tutte in modo scomposto fossimo dei rifugiati molto tristi.

La cosa strana è stata sentire il mio più equilibrato umore mutare subitaneamente dopo cinque minuti in quella stanza. Dopo due ore, non sentivo più niente.
Ero come annichilita sul posto ad attendere lo scorrere del tempo, che sembrava di una pigrizia incontenibile.
Ho provato a leggere, e dopo poco ho messo via quasi con disgusto il libro, con un sentimento di inedia e sgradevole agitazione nel petto.

Il personale mi ricordava un ammasso di formiche impigrite dall'estate che proseguivano sul loro moto rettilineo uniforme verso le varie occupazioni; il dottore una cicala interessata con due grandi baffi al posto di un più umano sorriso mi ha posto delle domande appositamente rivolte per ottenere un' unica parola di risposta.
Toccandomi il ginocchio, mi fece sentire tutt'altro da esso, come se stesse toccando dinanzi a me qualcosa di mia proprietà da cui mi giungevano lentissimi echi di dolore.
Nessuno è stato cattivo con me, anzi. Semplicemente c'era la più ferma consapevolezza di essere lì per eseguire un dovere da me richiesto, per dare un' assistenza più che mai efficiente alla mia richiesta.

Una piacevole eccitazione mi pervase all'idea di allontanarmi dall'ambulatorio per spostarmi nel laboratorio dove eseguire la lastra. L'unica cosa che desideravo era spostarmi da lì, dovunque ma non lì, dov'ero stata ore a guardare lo stesso punto negli stessi volti, senza riuscire a pensare a nulla, senza sentire assolutamente niente se non sgradevoli percezioni.

Fatta la lastra, mi è stato chiesto di attendere fuori dalla porta del laboratorio.
Riuscivo a non sprofondare nello stato di prima unicamente perchè c'era un abissale silenzio ed ero davvero sola.
Ma dopo poco arrivarono due infermieri trasportando una barella, e prima di andarsene via in fretta la posizionarono esattattamente di fronte a me.
Sopra c'era un uomo che poteva avere la stessa età di mio padre. Aveva un grosso taglio sulla fronte e una fasciatura che gli circondava la nuca. Stava steso immobile a fissare davanti a sè.
Eravamo in due nel più completo silenzio.
Dopo poco, lentamente, lui spostò gli occhi sul mio viso, e lì li fermò.
Il suo sguardo era grigio e pieno, intenso, completamente abbandonato sul mio volto, aggrappato, come se dipendesse dai miei lineamenti.
E nel più completo silenzio due lacrime si formarono al bordo di quegli occhi e inesorabili scesero solcando le guance.
Faticavo moltissimo a sostenere lo sguardo, non sapevo cosa fare. Mi sentivo proiettata verso lo sguardo di quell'uomo, volevo capirlo, dire qualcosa, fare qualcosa, comunicargli qualcosa, mi sentivo malissimo.
Dopo quello che mi sembrò tantissimo tempo lo portarono via, e lui mi fissava ancora mentre veniva trasportato nel laboratorio.

Quando sono tornata su tutto il tempo sembrava improvvisamente accelerato.
Non riuscivo a smettere di pensare a quell'uomo, e a chiedermi perchè si fosse messo a piangere.
Ho chiesto a mio padre di venire a prendermi, e alla sua domanda su come mi sentissi, ho provato a chiedere il suo parere sulla scena. Mi ha risposto: "Forse anche lui ha una figlia che è stata male".
Ho chiamato la mia migliore amica per rassicurarla e mentre le raccontavo l'accaduto, piangevo impercettibilmente.

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